Come sopravvivere al proprio cervello: lo spiega Raffaele Calabretta di Marilù Pirozzi 2/2
Da queste pagine, intrecciate e tenute insieme da elementi eterogenei, viene alla luce la figura di un uomo comune, un uomo che ci si aspetta di trovare uscendo di casa, in strada o al lavoro, un uomo, come è stato definito, “moderno”. E la sua “modernità” consiste proprio nell’essere afflitto da un male che non deriva da un dolore contingente, un male che non lascia segni sul corpo, un male che può capire solo chi lo sperimenta su di sé: il male di vivere.
Gabriele non trova una soluzione possibile alla sua insoddisfazione, perché non è un dato esterno a provocarla, non è un cosiddetto “giorno storto”, non una scelta sbagliata, non una mancata realizzazione lavorativa o affettiva. È la voce della sua vita che lo assilla, che gli chiede di più. Che gli chiede la felicità. Ma, paradossalmente (o umanamente), Gabriele non esprime questi suoi sentimenti, sviluppa un egotismo che lo rinchiude nella solitudine della sua delusione e soffre, sempre da solo.
L’unica via d’uscita che lo scrittore gli fa intravedere è la lucida accettazione delle sue emozioni, imparando a comunicarle e a condividerle con gli altri, scoprendo così che non si è mai soli quando si soffre.
Al di là, quindi, di ogni umana partecipazione al dolore proprio o a quello degli altri, una scelta possibile per raggiungere la felicità è quella di incanalare tutti i sentimenti tumultuosi che si agitano nel cervello (se si adotta un punto di vista scientifico, nel cuore, se si vuole essere più candidamente romantici) e portarli fuori, alla luce del sole, per vederli riesplodere nella loro confusione, stavolta, però, senza mettere a rischio la propria stabilità psicologica.
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(articolo pubblicato il 30/04/2007)
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