The Elephant Man di David Lynch di Emanuela Perozzi 1/3
The Elephant Man (1980) non è forse il film più originale di David Lynch. Non è nemmeno il più visionario, complesso, oscuro, enigmatico, vibrante e perverso tra i suoi film. Ma è, senza ombra di dubbio, uno tra i più poetici e delicati.
Chi ha amato Twin Peaks e i segreti di Laura Palmer o i diabolici scambi d'identità di Mullholland drive, non rimarrà deluso nelle sue aspettative di perdersi nell'intricato labirinto della mente di Lynch, poiché la genialità e l'essenza dell'incomprensibile in The elephant man si fanno materia palpabile, si rendono protagonisti nella stessa crudeltà della storia (tristemente vera) narrata, nella drammaticità che si trasforma in melodramma grottesco, nelle ossessioni che ancora una volta Lynch ci mostra con sfrontatezza.
Una densa nuvola di fumo ci introduce nell'oscurità della mente umana, così come, a distanza di vent'anni, la Rita di Mullholland Drive emergerà dall'inconsistenza del fumo senza memoria e privata di una identità, lasciandoci la sensazione di un passaggio dalla veglia al sonno, dalla vita alla morte, dalla luce all'oscurità.
Anche The Elephant Man si apre con immagini che possiamo definire oniriche, mentali, se vogliamo. Due occhi di donna seguiti dalla visione di elefanti resi minacciosi dalla loro collocazione nel vuoto, il misterioso e affascinante bianco e nero a rendere tutto un po' più sfuggente, indefinito, inavvicinabile a livello della coscienza.
Tutti elementi che, oltre ad esplicitarsi come chiara firma autoriale di Lynch, contribuiscono a trasmettere un indecifrabile senso di inquietudine e a lasciarci presagire che siamo scesi più in profondità, che vedremo una storia vera narrata con voce interiore, con attenzione al simbolico, e non come mera rappresentazione di ciò che è accaduto ad un uomo violentato dalla natura, sfigurato e lacerato nell'animo e nella dignità.
avanti >>>>>>
(articolo pubblicato il 31/03/2007)
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