Le buone promesse di Border town  di Michela Monferrini  2/2

Bordertown, uscito nelle sale italiane il 23 marzo, racconta questa strage, che continua a mietere vittime. Nove anni, tanto è il tempo passato da quando il regista, Gregory Nava, parlò del progetto a quella che oggi è la protagonista del film, Jennifer Lopez (nel cast insieme ad Antonio Banderas e Martin Sheen), che inoltre, il quattordici febbraio, ha ricevuto il premio "Amnesty for Amnesty" per la scelta del ruolo e l'impegno. Come racconta Nava, c'è stata una serie di ostacoli, minacce e rifiuti, che però non ha fermato il progetto, terminato solo grazie ad un ottimo cast, alla produzione indipendente (di cui fa parte la stessa Lopez) e alla presenza di storie parallele, che ne fanno semplicemente un film, distinguendolo dal reportage.

Il primo resoconto filmato di ciò che stava accadendo a Juarez, è stato proprio un documentario, "Señorita Extraviada - Missing Young Women" (2001), al quale sono seguite minacce tali, da indurre la regista messicana, Lourdes Portillo, a rifugiarsi a San Francisco. Nel documentario, si spiegava come le vittime fossero ragazze povere, costrette, per mantenere genitori e fratelli, a lavorare di notte nelle grandi fabbriche d'assemblaggio della zona, le maquilladoras. La Portillo accusava, non solo la polizia locale, ma lo stesso governo, di essere quantomeno a conoscenza della verità, denunciando il caso Sharif Sharif: un imprenditore egiziano che, nonostante avesse provato la sua innocenza, fu scelto come "capro espiatorio" della vicenda e condannato a trent'anni con un processo irregolare, seguito da minacce per il suo avvocato e da un attentato al figlio.

Certamente Bordertown non si spingerà oltre ciò che è stato già detto, non chiarirà il mistero di queste morti, legate forse ai narcotrafficanti, forse al mercato di organi, ma avrà il merito di mostrare, per una volta, quella zona d'ombra del Messico, dove mistero e impunità sembrano essere strettamente intrecciati.

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