Zodiac di Michela Monferrini 1/1
Spesso nella vita non si riesce a trovare soluzione a un problema. A volte si è speso molto tempo nel tentativo di trovarla, a volte ci si accorge che è stato tempo perso e si resta, inevitabilmente, delusi. Zodiac è il racconto di come tutto questo non solo possa accadere, ma di come possa cambiare completamente la vita delle persone. Un racconto così realistico da risultare frustrante.
L'ultimo film di David Fincher (regista degli indimenticabili Seven e Fight club) narra una storia vera, quella di un serial killer che nel 1968 cominciò a terrorizzare San Francisco, continuando poi a compiere omicidi per trent'anni, più o meno continuativamente, e soprattutto continuando a sfidare ora la polizia ora la stampa, con lettere in codice ricche di simboli di diversa e difficilmente interpretabile provenienza. Lettere comunque, che potrebbero non essere mai state completamente decodificate, perché aperte a più tipi di lettura nello stesso tempo.
Fincher ha ricordato in un'intervista la sua infanzia a San Francisco, in quegli stessi anni, la paura di suo padre e di tutti gli altri, le raccomandazioni quotidiane davanti allo scuolabus. Ma non è solo una storia che il regista può raccontare attraverso ricordi personali: è soprattutto una storia che gli permette di tratteggiare, una volta in più, il tema, a lui caro, dell'ossessione, non attraverso le vicende dell'assassino, come qualsiasi thriller standard avrebbe fatto, bensì mettendo in primo piano la vita dei tre uomini che si occuparono del caso per tutto il lunghissimo periodo (uno dei tre ha recentemente scritto il romanzo da cui è stata tratta la sceneggiatura del film), tra alti (pochi, a dir la verità) e bassi, ma senza mai perdere completamente la speranza di poter catturare il vero colpevole.
La storia del detective Toschi (interpretato da Mark Ruffalo), si intreccia inevitabilmente a quella di un giornalista alcolizzato (Robert Downey Jr) e di un vignettista dello stesso giornale (l'ormai consacrato Jake Gyllenhaal, reso celebre da Brokeback Mountain). E sono i dialoghi tra i tre, le loro intuizioni, le loro ricerche, condotte sempre più in via privata, a condurre il filo degli eventi per quasi tre ore e a rendere il film lento per chi si fosse aspettato un thriller ad alta tensione, giocato tra sangue e fughe spettacolari: niente di tutto questo. La tensione è puramente psicologica, introspettiva, verrebbe da dire "privata" se non fosse comunicata allo spettatore come invece accade, insieme al senso d'impotenza e di delusione su cui il film chiude, lasciando una certezza paradossale perché senza prove concrete e una frustrazione simile soltanto a quella che si prova in certi momenti di vita reale.
(articolo pubblicato il 30/06/2007)
|