Un gradito ritorno di Maria Grazia Sarandrea a Roma

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Roma. La fecondità dei rituali orientali combinata ai ritmi occidentali. C’è tutto questo nel Tribal jazz della creativa coreografa e studiosa di danze tribali Maria Grazia Sarandrea, che ha riproposto nella semplice e suggestiva sala del Teatro Vascello una coinvolgente “Uzumè che danza”. Un’esplorazione di generi il cui filo conduttore è la vita che ritorna e la femminilità, declinate in tutte le culture e tradizioni del mondo.

La natura celebrata dalle musiche tribali dell’Africa e il desiderio di libertà delle donne del Medio Oriente svelato dal burka, coesistono in un mix di stili con i colori e le atmosfere del Sol levante. A dettare i tempi dell’opera, portata in scena da un cast tutto al femminile, è un suggestivo trasformismo. Quello di una scenografia essenziale, in un cui ogni oggetto diventa parte della coreografia. Il tamburo-sole in stile giapponese si contamina di ritmi tribal nelle percussioni a conclusione dei balli, celebrando un ritrovato equilibrio cosmico. I ventagli mutano le leggiadre danzatrici-uccello in potenti regine incoronate.

O quello del corpo di ballo che, dopo aver volteggiato in controluce in un simbolico volo che sprigiona l’anima dal corpo rimettendola in contatto con il cielo, si trasforma in vanitosi pavoni con in volto le maschere delle danze indiane Chhan e Seraikella e che accennano alle movenze della danza tailandese. In un dialogo continuo tra natura e donna, fatto quasi esclusivamente di musica e ballo, che ne celebra l’innata capacità di essere fonti di vita.

Settanta minuti di coreografie, firmate da una solare Amaterasu-Sarandrea, intervallate dai monologhi in giapponese e dalle movenze orientali e ironicamente ammiccanti della geisha- Uzumè che sono il collante dei vari momenti narrativi. Una perfetta fusione di generi che il Tribal jazz osa con successo, passando dai ritmi aborigeni alle tecniche moderne, e riscoprendo il valore terapeutico della danza che ridesta la vita in ognuno, come annunciato dai colori di primavera dei petali lanciati al termine dell’opera. Una delicata firma posta ad un messaggio di libertà, senza confini di spazio e di tempo.