I don’t know how to describe my work, because it’s not always the same thing. It’s like asking Miles Davis “How does your horn sound?”

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Roma. Quando Basquiat è morto, nel 1988, non avevo ancora la capacità di poterlo comprendere. Successivamente, sono rimasta colpita dalla sua bellezza, poi per la sua storia tormentata, poi dalla sua arte.

Basquiat è il prodotto perfetto degli Stati Uniti moderni, è una mescolanza di razze (padre haitiano, madre portoricana, ma nato e cresciuto a New York), un artista ibrido che si è mosso tra tele, pennelli, graffiti, musica e parole.

Basquiat è un nero degli anni ’70-’80, sono anni complessi, in cui spesso è difficile trovare una camera d’albergo o un taxi, eppure è proprio l’essere nero l’elemento unificante della sua persona, un’ identità di fondo da cui partire, a cui fare riferimento.

Da questa radice si propagano nello spazio, nella fattispecie la tela, o i materiali vari su cui dipingeva, forme scomposte, linee destrutturate, che a volte sembrano casuali, dipinte quasi per “sporcare” l’opera. I corpi non esistono più nel senso classico, ma vengono sezionati, sformati, stilizzati, perdono significato come unicum, mentre ogni frammento pulsa di una energia incredibile che invade chi guarda.

Arte Ovunque e con Qualunque Cosa: uno dei grandi concetti alla base dell’arte contemporanea.
Tutto questo lo si può ancora riscontrare andando a Palazzo Ruspoli, dove la Fondazione Memmo ha allestito questa importante mostra sull'artista americano.

La carriera di Basquiat inizia con i graffiti, sui muri della città, sulle metropolitane in movimento, nella mostra ne vediamo persino alcuni su un casco. E i materiali usati per comporre quello che convenzionalmente viene chiamato quadro sono tra i più variegati, si prenda ad esempio “Untitled ( Tar and Feathers)”: la base del dipinto è Tar, catrame, su cui sono state incollate delle piume,che si accompagnano all’uso dei colori acrilici, viene voglia di toccarlo, oltre che di guardare, c’è un coinvolgimento multisensoriale dello spettatore, la voglia di entrare nell’opera, per sezionarla, scoprirla pezzo per pezzo.

Ci sono anche dei riferimenti meta-artistici, come per esempio in “Cavalletto” dove oltre alla tela, che è il prodotto finale, lo spettatore è invitato a vedere gli strumenti del mestiere, una matita e lo stesso cavalletto, ulteriore dimostrazione di come tutto può diventare più di quello che è, tutto può essere arte; la stessa cornice viene oltrepassata, rotta, sporcata di colore, così come si vede in altre opere esposte. Oltre il confine, oltre il convenzionale, oltre la forma, in ogni caso tutto è energia, rabbia a volte, altre una sensazione sinistra, paurosa, di strano, come un’ombra che sta acquattata nei meandri dell’anima e che si manifesta, o ancora l’angoscia, che lo assale per mille motivi, e allora ecco il mantra, ecco una frase da ripetere, da dipingere: To repel ghosts, scacciare i fantasmi, compaiono ben quattro quadri con questo titolo nella mostra, in tutti la parola è protagonista, niente figure, le linee questa volta sono usate per scrivere, diretto, semplice: scacciare i fantasmi, una necessità.

Molto spesso dei grandi pittori, si dice che anticipavano i tempi, che erano avanti rispetto ai contemporanei, tra le tante qualità di questa bella mostra è che mette in luce un artista che non è avanti, non ha anticipato nessun tempo o moda, Basquiat è un uomo del nostro tempo,del mio tempo, di questi anni, la sua arte potrà far storcere il naso ad alcuni, ma credo che il “non detto” nascosto dietro ogni forma espressiva che non sia parola, arrivi più facilmente proprio perché le sue ansie, la sua creatività, ci sono in qualche modo familiari, vicine.

Colorato, energico, irriverente, dissacrante, assurdo, spaventato, disincantato, triste, drogato: Jean Michel Basquiat era tutto questo e molto altro,peccato che il suo caos, le sue linee si siano dissolti tanto presto.