A Private War, pellicola del regista MATTHEW HEINEMAN in uscita il 22 Novembre prossimo, già presentato alla 13a Festa del Cinema di Roma, è un film-documentario dai toni forti. Vede come fulcro la vita della giornalista Marie Colvin (ROSAMUND PIKE) attraverso la narrazione dell’intervista rilasciata dalla Colvin a Vanity Fair, poco prima della sua morte. Il regista intreccia la trama del film in parte documentario in parte finzione il tutto legato dall’unico tema conduttore il dialogo narrante che sottolinea lo scorrere degli eventi.
Chi è Marie Colvin? Donna, giornalista di grande talento riconosciuto a livello mondiale insignita di numerosi premi e riconoscimenti in forza al Sunday Times, inviata di guerra che ha raccontato tanti conflitti dal 1985 fino al giorno della sua morte nel 2012; ricordata anche per le sue interviste a figure politiche “scomode” Arafat e Gheddafi.
Durante una missione nello Sri Lanka l’esplosione di un lanciarazzi le provoca la perdita dell’occhio sinistro. Come una ferita di guerra, ha sempre ostentato portando una benda sull’occhio. Se in questo film parte del documentario si propone allo spettatore come una cruda reale narrazione di eventi, il lato fantasioso è messo in risalto attraverso l’interpretazione della Pike, del dramma personale che traspare dal vissuto interiore della donna.
I fatti narrati sono storia, la tenacia nel volerli denunciare, portarli a conoscenza del mondo, il desiderio di adoperarsi per porre fine alle continue atrocità che hanno caratterizzato tutte le cronache della giornalista con il tempo hanno richiesto un prezzo molto alto da pagare. Vivere, vedere, filmare, scrivere in prima persona anno dopo anno hanno creato nella giornalista una sindrome post-traumatica che in primis non voleva accettare, anzi cercava di scacciare attraverso l’abuso di alcol, fumo e medicine ma nel contempo come una dipendenza forte anelava a ritornare su nuovi scenari di conflitti per poterne dare rilevanza, fino a quando ne è rimasta totalmente intrappolata da non riuscire ad ritrovare il giusto contatto con la realtà.
Chiunque dopo aver visto quello che accadeva, sofferto emotivamente fino al limite della stabilità mentale aver faticato per ritrovare l’equilibrio, avrebbe desistito e scelto un percorso meno arduo, invece lei continuando a farsi dei danni alla persona ogni volta ritornava non riuscendo a staccarsi da quel mondo. La Pike si è calata in questo ruolo difficile, gli ha dato una chiave di lettura che si può credere molto vicina realtà? Non ci è dato di saperlo ovviamente però possiamo apprezzare l’interpretazione che ha voluto fermare nella pellicola, una donna dura e fragile, sregolata come la vita che conduceva, se lo fosse lei di suo o la vita l’avesse costretta è difficile da leggere la linea di confine. Del resto gli eroi hanno un lato oscuro che li rende per questo “affascinanti eroi”. Bel film non adatto ad un pubblico sensibile.