Isabelle Huppert mentre scarica il padre, foto stampa

Isabelle Huppert mentre scarica il padre, foto stampa

Lo stile di Paul Verhoeven si rivela pienamente nel nuovo film Elle, da oggi nelle sale.
Ritmo, analisi psicologica, il solito sangue che scorre e macchia i protagonisti: tutti quegli elementi visivi ed emozionali che hanno contraddistinto la carriera del cineasta.
Si potrebbe dire che è tutto molto facile avendo una Isabelle Huppert in grande, strepitosa forma: e dove ogni attore secondario è perfettamente calato nel suo posto.
Ma non è così semplice. Infatti il film è l’adattamento del romanzo “Oh…” di Philippe Dijan. Ed il rischio noto è di appiattirsi ad una mera didascalica rappresentazione di quanto è scritto, con attori in attesa della battuta dell’altro. Invece nel film il regista riesce a mantenere l’indipendenza di adattamento e strutturazione delle scene, facendo dimenticare il libro.
Sicuramente un aspetto non proprio riuscito è la mancanza di sintesi. Al di là delle necessità di rappresentare la storia del libro, viene a mancare verso la fine del film la capacità di chiudere la storia, con evidenti ripetizioni che stancano lo spettatore.
Questo non rovina l’ambiguità del personaggio interpretato dalla Huppert, Michèle. Una calamita, un polo gravitazionale di bene e male che vuole rappresentare la complessità umana, delle sue emozioni, della sua gestione. Fondamentale l’aspetto, definito dal regista “alla Mondrian”, di interrompere la narrazione con immagini di attualità, di situazioni comuni. In Robocop lo effettuò anche con falsi spot pubblicitari. La giustapposizione di queste scene crea l’effetto disturbo, da una parte deconcentrando, dall’altra aumentando la concentrazione verso alcune scene. Si conferma l’ambiguità, la complessità di voler rappresentare situazioni di confine, estreme, ma comunque umane del regista olandese.