Studio Universal (Mediaset Premium DT), presenta mercoledì 30 novembre a partire dalle 20:40 il secondo appuntamento di “MyStudio”, il programma che nasce da un evento live in cui attori, cantanti, musicisti e altre personalità del mondo dello spettacolo, cultura, scienza intervistati dalla giornalista Claudia Catalli, raccontano alle telecamere del Canale qual è il loro film americano preferito.
L’ospite d’eccezione è Pierfrancesco Favino che spiega al pubblico perché Quarto Potere di Orson Welles è stato il suo film del cuore e come ha influito sulla sua vita.
A seguire il film Quarto Potere di Orson Welles.
Di seguito l’intervista:
“Quarto Potere è una pietra miliare del cinema americano che ha segnato generazioni di spettatori. Perché lo hai scelto?
E’ un film godibilissimo, quei 119 minuti ti passano volando. E’ un film totalmente narrativo. Molto complesso ma allo stesso tempo molto più semplice rispetto a quanto si è pensato che fosse. Estremamente coatto.
Perché “coatto”?
E’ stato coatto chi lo ha fatto. A Roma coatto significa uno che ha molta prosopopea e nel caso specifico aveva ragione ad averla. A 25 anni fare una cosa del genere… Fare un capolavoro del cinema e farlo in questo modo non avendo paura, vuol dire che sei coatto. Orson Welles è coatto. Probabilmente ha anche avuto il problema di aver fatto come miglior film della sua vita, il suo primo film. Questo film è un grandissimo gioco, la macchina da presa è sempre presente, c’è un grandissimo desiderio di stravolgere e sconvolgere, vedere il mondo sotto un’altra lente. In questa chiave diventa quasi un film sul cinema. A me non dispiace quando vedo il lavoro del regista. Quando il regista dichiara il suo punto di vista e quando questo punto di vista è giocosamente tecnico come può essere per Sorrentino o per Kubrick, quei registi che dichiarano il movimento di macchina ma che non sono mai fine a se stessi.
Ti ricordi la prima volta che lo hai visto? Quante volte te lo sei rivisto?
L’ho visto per la prima volta a casa in videocassetta e l’ho visto perché che fai non sai parlare di Quarto Potere? Facciamo parte di una generazione in cui poter parlare di cinema faceva un po’ fico, andavi a cena e ti chiedevano “hai visto Quattrocento colpi”… eh ovvio! “hai visto Farenheit?” Eh certo!
Penso di averlo visto 10 o 12 volte, nel senso che a volte ti chiedi “che facciamo stasera? Ma perché non rivederci Quarto Potere?” Da solo naturalmente…perché quando lo propongo a casa c’è il fuggi, fuggi generale, mi dicono “ma no guarda adesso meglio di no che c’è Peppa Pig”.
Sono contento di non averlo visto troppo presto perché me lo sono goduto di più.
Ti sei mai ispirato a Orson Welles nella tua carriera, per uno spettacolo teatrale, per un film, per un provino o anche solo davanti allo specchio?
Credo che esistano eventi artistici come questo film che aggiungano vocaboli al vocabolario esistente, per cui il cinema prima e dopo Quarto potere sono due mondi diversi, come se lui avesse aggiunto 5 pagine ad un vocabolario. Sarebbe presuntuoso da parte mia dire che mi sono ispirato ma sarebbe altrettanto cieco non sapere che questa posizione della camera da presa, questa frammentazione del racconto, ha fatalmente condizionato la mia crescita come uomo, come spettatore e quindi credo anche come attore.
Truffaut disse: Vedi questo film e ti viene voglia di passare alla regia. Ti è successo con Quarto Potere?
Lui il film lo ha fatto a 25 anni, io lo avrò visto a 22 e mi sono detto: c’ho ancora tre anni, poi a 27 ho detto vabbè ma lui sta in America, a 29 ho detto si vabbè ma lui sta sempre in America, a 30 mi sono detto: Orson Welles è Orson Welles. Sicuramente non puoi ispirarti a lui, puoi sapere che esiste questa possibilità di racconto.
Qual è il momento della vita, della carriera in cui si smette di avere l’ansia di dover dimostrare quanto si vale?
Facendo l’attore firmi un contratto non scritto in cui dici che avrai sempre bisogno di un’approvazione. Secondo me cambia la qualità di questa cosa. Nel momento in cui ti rendi conto che questa cosa non la fai più per te e quindi non richiedi più a te stesso di essere all’altezza di un’approvazione ma essere all’altezza di lasciar libero lo spettatore di fare il suo film, di seguire la storia senza che tu possa essere intrusivo delle emozioni dello spettatore, allora quello è un passaggio di maturità importante. Benché in quanto uomini abbiamo sempre bisogno di tenere qualcosina per noi. L’ideale di un attore per me è essere puramente lo strumento di una storia.
Qual è il tuo Rosebud ovvero quell’elemento, oggetto, tratto caratteriale dell’infanzia che tutti pensano che hai perso ma non hai perso?
La curiosità e la positività. Sono uno che pensa sempre che gli uomini siano buoni. In fondo se faccio questo mestiere è perché sono molto attratto dagli esseri umani perché credo che siano delle persone meravigliose e questa è una cosa che mi è stata insegnata dal buon cuore dei miei genitori ed è una cosa che ho ancora dentro. E se devo scegliere tra non fidarmi e fidarmi, anche quando sospetto non essere giusto, spontaneamente mi fido. Ed è una cosa che avevo fin da bambino.
Che tipo di lezione può dare Orson Welles e questo film sul sonoro?
Il peso della radiofonia all’epoca era completamente diverso, il suono di questo film è meraviglioso proprio nel non essere verosimile. I supporti audio nonostante i restauri rimangono supporti audio che volutamente non ti fanno pensare alla realtà, quello schiacciamento della voce, ti porta immediatamente in un mondo che è il tuo mondo di fantasia, il tuo mondo di attenzione, è il mondo in cui hai deciso di vedere quel film e di dedicarti un tempo. Per quel che mi riguarda, più che la voce “potè” l’orecchio e sentire e ascoltare è il senso attraverso il quale io ho decodificato la realtà e di conseguenza la voce. Io ancora oggi mi sorprendo nel tentare di fare dei rumori bizzarri. Vivere con me non è facile.
Come hai fatto nel tempo a mantenere integra la tua vita privata?
Credo che l’equilibrio non sia uno soltanto e ho impiegato un po’ ad arrivarci perché io provengo da una famiglia in cui mamma e papà erano sempre lì. Per me quindi non è stato facile fare i conti col mio mestiere che mi porta a fare cose diverse. Quel modello di riferimento non è assolutamente attuabile. Esiste però un equilibrio della nostra vita, del fatto che ci sono delle scelte che puoi e devi fare, non è così vero che non puoi rinunciare. Sai che se rinunci a delle cose, c’è qualche altra cosa altrettanto importante. E’ vero che si batte il ferro finché è caldo ma è anche vero che se altri ferri si raffreddano fanno peggio. Allora dipende anche su cosa vuoi investire nella tua vita e l’investimento vale la pena quando è dedicato anche ai propri figli.
Parlando di rinunce, quanto conta nel percorso attoriale e nella carriera dire “no”?
Sicuramente ci sono dei no che si fa bene a dire, nel momento in cui hai la possibilità di poter scegliere però ci sono dei no che poi alla fine sconti. L’importante è che tu sappia perché stai dicendo quel no e che quella cosa ha un grande valore per te.
Quali sono le tue letture preferite?
Ho riscoperto il “fascino” dei saggi sulla fisica quantistica. Che leggo di notte cercando di non disturbare con la luce la mia signora. Forse sarà per questo che fatico a capirli.
C’è un ruolo che vorresti interpretare e uno che invece non vorresti proprio?
Sai io ho sempre fatto gente col cerchio alla testa, della serie “non sai che mi è successo…” un po’ forse è la faccia che c’ho. Benché io ho sempre pensato che avrei fatto l’attore comico. Mi sembra limitante dire: vorrei fare San Francesco…o voglio fare Che Guevara. Per quanto riguarda il teatro ci sono cose che vanno fatte e chi non le fa, sa che non le ha fatte. Ad esempio se non hai mai fatto Amleto, non lo hai mai fatto e non ce ne sta un altro. Per quanto riguarda il cinema è un po’ diverso. Ci sono tante figure che mi interessano ma quello che mi piace dell’umanità è l’incapacità di essere chiusa all’interno di una sola identità e non penso che un uomo sia una cosa sola ed è il motivo che mi spinge a cercare tutte le volte che ho materiale a disposizione quanti uomini in potenza può essere un essere umano.
Quale è stato il tuo impatto nel lavorare in una produzione americana? Quali sono le principali differenze con la realtà italiana?
Io sono andato a fare un provino per Cristoforo Colombo in Una Notte al Museo, faccio in realtà il tape e lo mando. Lo avevo detto ad un paio di amici che avevo fatto un provino per un film con Ben Stiller e una sera a cena mi chiama un mio amico che secondo me, fa finta di parlare americano chiedendomi di presentarmi il giorno successivo etc.. e io rispondo si vabbè Fa’ basta e attacco. Mi richiamano, mi danno l’appuntamento e io chiamo la mia agente che mi conferma tutto. Mi dice solo: guarda che c’è un truccatore che viene e io tra me dicevo che strano dobbiamo girare a Vancouver e questo viene qui…
Mi fanno arrivare in un albergo romano e mi fanno un calco da capo a piedi, della faccia, del busto… e tra me e me dicevo sarà il loro modo di lavorare. Dopo di che arrivo lì e come avete visto o no, tanto non mi ha riconosciuto manco mia madre, stavo in questo scafandro di statua da Cristoforo Colombo. Per cui il primo passo nel cinema americano è stato di guardare senza poter essere visto. E’ stato però perfetto nel mio percorso perché non ho avuto nessuna responsabilità grande comunque c’è una differenza culturale nell’impostazione del lavoro. Ambiente iper controllato con grandi possibilità. Apparentemente meno creativo con 350/400 persone che lavorano ad un film. Io sono abituato a set con al massimo 70 persone e una creatività e una collaborazione diversa, se vogliamo più esplosiva. Detto questo tra azione e stop non è che ci sia una grande differenza.
Il cinema americano è l’investimento più grande della loro cultura nel mondo. Grazie al cinema stiamo qui a parlar di un film del 1941 che vuol dire che ha segnato il nostro modo di pensare.