Tra gli elementi caratteristici di Woody Allen vanno annoverati la passione per gli anni ’30 del Novecento e l’abilità nello scrivere un soggetto.
Nonostante ogni suo film presenti queste caratteristiche, facendo gridare alla noia e alla ripetitività la maggior parte del pubblico, rimane encomiabile la capacità del regista ashkenazita di saper variare quanto basta per far apparire ogni film diverso, applicando la produzione industriale nel campo cinematografico senza rinunciare alla profondità filosofica.
Irrational man non elude questa dinamica e presenta una forte continuità con il precedente Magic in the moonlight, dove l’irrazionalismo degli anni ’30, che pervase una sempre più tecnologica Europa, rappresenta per entrambi l’ispirazione centrale.
Palese il suo scetticismo sul presente, sugli argomenti ormai incrostati come la tecnologia, le riflessioni per trovare soluzioni, sui discorsi e sulle parole.
L’anziano regista si sofferma sull’involuzione di un contesto sociale troppo legato alla perdita di tempo senza concretizzare azioni concrete sulla vera realtà e non sul virtuale.
Si badi bene: non rinnega il suo passato fatto di elucubrazioni ed introspezione ma sottolinea come questo processo sia terminato, come l’inutilità di proseguire sempre sulla stessa strada della tradizione sia un cappio sempre più stretto intorno alla società. Non lo fa progredire, la riporta paradossalmente ad uno stadio di conservatorismo assolutamente ottuso e promiscuo con forme di cieca violenza.
Magic in the moonlight e Irrational man condividono l’idea che l’aspetto del magico, del non ben definito, del qualcos’altro oltre l’aspetto tecnico di un oggetto, di una persona, sia la realtà e completi l’esistenza rendendola bella. In questo, è palese la vicinanza con le riflessioni filosofiche sviluppate negli anni ’30.
Ma anche con le riflessioni di Leopardi contenute nello Zibaldone, dove il poeta recanatese consigliava come tecnica di scrittura e tecnica del vivere di non definire in modo totale la realtà, togliendo appunto quella sorpresa, quel vago che la completa e scatena la fantasia.
Citando un passo: “procurando quel vago e quell’incerto che è tanto propriamente e sommamente poetico, e destando immagini delle quali non sia evidente la ragione,
quasi nascosta”.
Su questo solco si innesta, in astratto, la Shoah. Nel film non viene mai citata al di fuori della banalità del male di Hannah Arendt, ma in realtà è il secondo principale soggetto del film. In che modo si sviluppa? Nel totale arbitrio di poter decidere la vita degli altri ponendo come motivo etico la realizzazione di sé.
Questa storia, una banalità del male nella misura in cui tale desiderio può nascere casualmente e realizzarsi su un inconsapevole malcapitato, si sovrappone a quella del Terzo Reich nella sua parte etica.
Un film assai complesso, realizzato con semplicità di dialoghi e ricchezza di scenografia: un momento unico per il panorama mondiale avere una tale personalità intellettuale ancora operante.
Splendidi gli attori: Joaquin Phoenix ed Emma Stone.