Lousiana delude le attese. Tanto acclamato dalla stampa da Cannes, si rivela un buon documentario che non aggiunge nulla alle zone riprese e alle persone che vivono in Lousiana, con speciale menzione per quella Cajun. Il montaggio è fotografico, come indicato dallo stesso regista Roberto Minervini. E tale caratteristica, accentuata dall’uso di un solo tipo di obiettivo rende il film statico, benché interessante nell’idea di sentirsi fotografo ossia immerso nell’ambiente e nelle situazioni, per raccontarle da dentro. Ma per rendere il documentario graffiante serve ideologia e filosofia. La prima ti porta ad avere una tua visione, anche limitata, ma precisa e filtrante della realtà che ti interessa: così lo spettatore potrà effettuare le sue valutazioni, sentirsi d’accordo o in disaccordo ma partecipante. Con la filosofia si introduce un ragionamento, un motivo per lo spettatore per rimanere interessati dallo svolgimento del film.
Infatti, la visione spaccata a metà tra l’ala conservatrice americana, rappresentata dai cacciatori ex-militari, e i progressisti idealizzata dalla comune di reietti rimane utile per vedere un’altra America ma non sufficientemente sviluppata: difficile pertanto comprendere la valutazione di Mereghetti sul Corriere, così sbilanciata verso il capolavoro.