Il film di Spike Jonze nelle sale da domani narra una storia già vista. E purtroppo senza quel piglio di novità formale che lo avrebbe reso utile da vedere. E senza quella pungente capacità analitica del regista che tanto aveva colpito in Essere John Malkovitch. Il protagonista del film, Theodore (Joaquin Phoenix), vive malamente la fine di una importante storia d’amore. Trova un palliativo in un prodotto software di ultimissima generazione, che simula una persona reale che si dedica completamente alla tua persona, simulando reali sentimenti anche di affetto. E sboccia l’amore tra Theodore e Samantha (interpretata dalla sola voce di Scarlett Johansson), che fallirà per gli stessi motivi accaduti per Catherine (Rooney Mara): mancanza di affrontare la realtà, rimanendo legati ad uno stato infantile. E non c’è soluzione per la storia sceneggiata e diretta dallo stesso Jonze: è una sorta di limbo perenne.
Questo racconto è assolutamente reale nella descrizione dello stato d’animo che può accadere a molti di noi nella vita. E Phoenix è eccezionale nella recitazione, sa tenere il personaggio principale da Oscar, con questa cinepresa sempre puntata addosso in primissimo piano. Il punto è che manca l’universalità della storia: appare limitata ed angusta, senza ampio respiro. E non sembra legata all’atmosfera del film. Tema similare lo si può trovare in La prima cosa bella: lì Virzì opera il massimo nel tirar fuori una visione storica ed atemporale di accadimenti nella propria vita che riguardano tutti noi. E dove ognuno di noi vi si può riscontrare.