Roma. Il film vincitore del Leone d’oro a Venezia 2013 Sacro GRA è stato ripresentato con la proiezione al cinema Greenwich e successiva conferenza stampa al barcone di Cesare l’anguillaro. Grande festa, il Leone bene in vista, le foto di rito: una grande gioia per gli attori che vi hanno partecipato, il regista, il produttore, il delegato di RAI Cinema, la quale ha scommesso su questo documentario coraggioso e poetico vincendo l’ambito premio. Non si poteva che essere contenti, da cinefili e da italiani, per questa impresa. E per aver riportato sullo schermo storie di persone marginali ed emarginate da una società che li ritiene tali e invece non lo sono.
Ma di cinema cosa porta il film? Narrando di storie di persone che vivono ai margini del Grande Raccordo Anulare, ci si aspettava una relazione con esso. Invece, possiedono una mera vicinanza fisica che nulla ha portato alla narrazione, risultando quasi fuori tema. Le persone, tutte reali, recitanti sé stesse con la loro vita sono slegate tra loro: ceertamente l’idea della solitudine, dell’assenza di una identità in una città comunque non così grande come altre capitali mondiali segna lo spettatore. Ma è anche un già visto. Il regista Gianfranco Rosi ha spiegato durante la conferenza che Renato Nicolini, il compianto assessore dell’Estate Romana, voleva che il documentario rompesse lo schema rigido di un GRA che chiude la città: bisogna romperlo, per parlare delle storie delle persone che vi vivono. Quest’azione risulta compiuta ma il risultato sembra povero. La rottura ha sparso i pezzi per terra e lo spettatore li deve riunire per dare un senso. Ma si rischia anche che si annoi e se ne vada, rischio che non valeva la pena percorrere.