Novanta minuti di risate con Gambit, il nuovo film nelle sale da oggi per la regia di Michael Hoffman. Si premia la sceneggiatura dei fratelli Coen che con grande sapienza mescolano ingredienti già noti al pubblico cinematografico creando un nuovo prodotto, una storia semplice di una truffa ben riuscita unita ad un leggero livello simbolico.
Per vendicarsi del capo prepotente e per una semplice idea di guadagno facile, Harry Deane (Colin Firth) architetta col maggiore Wingate (Tom Courtenay) un furto ai danni di Lionel Shahbandar (Alan Rickman), sottraendogli con destrezza un Monet tramite la sua sostituzione con uno falso, realizzato dallo stesso maggiore. Tale furto è commissionato da un magnate giapponese in lotta con Shahbandar.
Al fine di raggiungere lo scopo userà PJ Puznowski (Cameron Diaz), una texana dello stesso livello di linguaggio di Shahbandar, tanto bella quanto furba. E nella rete cadrà anche l’esperto d’arte Martin Zaidenweber (Stanley Tucci), assunto dal capo in sostituzione di Harry Deane.
Rifacimento dell’omonimo film del 1966 interpretato da Michael Caine e Shirley MacLaine, propone una struttura mista, un eclettismo culturale che porta ancora una volta i fratelli Coen nella categoria degli eleganti intellettuali. Il maggiore insieme al ricco uomo che inserisce una donna di bassa estrazione, dal loro punto di vista inglese, nell’alta società ricorda la struttura di My fair lady. Certamente l’obiettivo finale è diverso ma la struttura è identica, soprattutto nell’idea di scommessa, molto anglo-sassone. Similare è l’idea strutturale di truffa con La stangata, dove l’interesse particolare di Harry Deane si fonde con quello del magnate giapponese, così come la vendetta di Johnny Hooker (Robert Redford) si unisce con gli interessi del suo tramite Henry Gondorff (Paul Newman). Disseminate durante la proiezione le critiche pungenti all’espressionismo astratto di Pollock, alla cultura inglese contrapposta ai modi cow-boy e cow-girl texani, i soliti occidentali che vedono stereotipati i giapponesi, il bifolco texano che possiede una fine intelligenza, l’ironia su quei nazisti che ancora oggi persistono nell’anima.
Con momenti esilaranti il livello simbolico viene presentato sotto mentite spoglie ma esso non richiede di esser notato forzatamente: anche lo spettatore digiuno può gustarsi il film senza dover incorrere in confronti, paralleli, analisi approfondite. Ad esempio, non è necessario indagare sul cognome Zaidenweber, il critico d’arte ingaggiato da Shahbandar, che in tedesco sostituendo la Z con la S significa tessitore di tela, una sineddoche per indicare l’intero personaggio. Il livello simbolico rimane nascosto proprio come nel libro Alice nel paese delle meraviglie ed in questa analisi estetica si può cogliere l’obiettivo stesso del film: la critica all’intellettualismo sfrenato ed alla necessità di tutte quelle sovrastrutture tipiche della nostra civiltà occidentale.
Una nota di merito per Cameron Diaz, un’attrice che merita di ricevere parti drammatiche per poter avere anche lei un posto nell’olimpo del grande cinema: ha tutte le qualità, una grande versatilità che deve essere usata al di là degli obiettivi da botteghino.