Roma. Alla proiezione stampa all’ANICA del film L’arrivo di Wang, abbiamo avuto modo di avvicinare Marco Manetti dei Manetti Bros, i registi, per parlare della nuova estetica riscontrata in questo memorabile pellicola.
In questo film abbiamo potuto assistere forse ad una piccola svolta storica nella cultura cinematografica occidentale: ossia un nuovo tipo di estetica. Si possono fare a meno dei canoni del ‘900 nella tipologia di inquadrature, pensiamo a Fellini o Truffaut, scegliendole più televisive che vadano a marcare ulteriormente la visione e il sentimento, un po’ alla Wagner.
Hai messo dentro tante cose nelle nostre inquadrature! Io la interpreto così, anche se non sono molto d’accordo sull’unicità. Se tu mi mischi Wagner e la televisione, è l’emozione fortissima della verità.
Wagner, nel suo grande teatro a Bayreuth, faceva sparire l’orchestra sotto al palco, in modo tale che la musica promanasse. Nel profondo Ottocento anticipava la cinematografia. Voleva che il pubblico si concentrasse solo sulla visione del dramma, con una musica di sottofondo. Proprio per questo motivo mi sento di accomunarvi a questa idea, pensando ad un nuovo tipo di estetica.
Guarda, ci hai preso al 100% su come lavoriamo. Per questo dicevo prima l’emozione della verità, di non ricordare come è stato realizzato.
Penso che non sia un’estetica solo nostra ma dei tempi. Ti posso dire negativamente che fare un film così in Italia significa essere un po’ sepolti, quindi se fossimo i capostipiti non c’è futuro.
C’è molta filosofia, scelgo due aspetti essenziali. La prima: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
No, no. Posso ribaltartela? Meglio conoscere che fidarsi o non fidarsi a priori. E’ questa la nostra filosofia.
La seconda è un mio pallino, magari è solo una fantasia. Vedo qualcosa di Heidegger: essere e tempo, essere è tempo. La protagonista, la splendida Francesca Cuttica, non coglie la sua esistenza e quella dell’alieno. Una critica sull’ottusità generale del mondo umano.
Assolutamente, è soprattutto questo. E’ un film sulla mancanza di esistenza di noi stessi, siamo diventati un po’ tutti delle figurine bidimensionali, dei personaggi che interpretiamo nella società. E’ un racconto dei pericoli della mancata esistenza della vita interiore.